domenica 9 gennaio 2011

Materiali - Martone su Martone

Il volume edito da Bompiani che riporta la sceneggiatura del film Noi credevamo si apre con una sintesi delle conversazioni intervenute tra Martone e Lorenzo Codelli. In esse il regista affronta le questioni legate all’origine del film ed alla sua realizzazione. Scopriamo che la sua genesi ha uno stretto rapporto con il problema del terrorismo:
A darmi la spinta per il film fu una domanda che a un certo punto cominciò a passarmi per la testa. Dopo l'11 set­tembre la pressione del terrorismo internazionale era perce­pita in maniera molto forte e la questione palestinese era sem­pre molto presente. Non pensavo tanto al passato, alla storia d'Italia, che in fondo non conoscevo affatto, ma, riflettendo sul rapporto fisiologico fra terrorismo e lotta per l'identità nazionale, mi chiedevo: com'è possibile che il nostro Paese, che ha così a lungo combattuto per la sua indipendenza, non abbia conosciuto niente del genere? Che la storia d'Italia sia stata soltanto una storia di grandi battaglie, gesti eroici e abi­lissime diplomazie, senza quel fatale e pesantissimo contrap­peso che l'impegno di una lotta del genere comporta?

A questa domanda il regista ha trovato delle risposte, anche grazie alla collaborazione di Giancarlo De Cataldo, nell’attentato di Felice Orsini, nel progetto di minare Notre-Dame a Parigi, nella congiura per assassinare Carlo Alberto. Più in generale la genesi del film rimanda alle molte rimozioni che ostacolano la conoscenza della nostra storia:
Ora, è chiaro che la mia conoscenza della storia d'Italia era molto generica, ma mi sono accorto, nel corso degli anni, che questa conoscenza generica è molto diffusa. […]
Noi italiani abbiamo un'idea approssimativa della nostra storia, priva di qualunque rilievo drammatico. Credo che sia per questo che su di essa è calato nel tempo un pesante strato di polvere.
Noi credevamo è nato nel tentativo di dare risposte a questa domanda iniziale, poi è cominciato il viaggio dentro la storia italiana dell'Ottocento e i temi del film sono anda­ti molto oltre.

L’omonimo romanzo di Anna Banti ha fornito poi molto più che un semplice spunto narrativo:
Il romanzo è una sorta di "autobiografìa apocrifa", poi­ché è costruito su elementi di realtà. Il nonno di Anna Banti, che si chiamava Domenico Lopresti (e Lopresti era il vero nome della scrittrice, che aveva poi scelto Banti come nome d'arte), era stato un cospiratore repubblicano, imprigionato a Procida, a Montefusco, a Montesarchio. 
Il romanzo inizia a Torino dove il protagonista, vecchio e malato, ricorda in un lungo monologo interiore la sua vita. Per quanto mi avesse colpito molto, non ho mai pensa­to di mettere in scena il romanzo; ne ho voluto piuttosto trarre degli elementi importanti. A derivare dal libro della Banti è innanzitutto il personaggio di Domenico, con quel suo carattere chiuso, la sua ostinazione magnificamente raccontati dalla scrittrice. Ma anche dal punto di vista narrativo c'erano degli epi­sodi che si sono poi rivelati fondamentali per il film: la detenzione a Montefusco e la partecipazione alla battaglia di Garibaldi in Aspromente, con l'amara sconfitta che ne seguì.
[…]
L'altro elemento importante che il film deriva dal libro di Anna Banti è la radicalità repubblicana, che in esso dal­l'inizio alla fine è il punto fermo della vicenda di Domenico Lopresti. Domenico è un mazziniano, nel romanzo peral­tro non affiliato alla Giovine Italia ma ai Figli della Giovine Italia, il movimento meridionale di Musolino in Calabria. Anna Banti dedica pagine bellissime anche all'incontro con Musolino, ma nel film abbiamo semplificato le cose per ragioni narrative, per rendere più diretto il rapporto con Mazzini.

La radicalità repubblicana rimanda alla tesi di fondo del film (che peraltro è un punto fermo della storiografia risorgimentale): l’esistenza di due Risorgimenti, quello monarchico-liberale e quello mazziniano-democratico, con la sconfitta di quest’ultimo. Questo dualismo, tra un’opzione tendenzialmente autoritaria ed una democratica, secondo Martone si sarebbe ripresentato poi in tutta la storia italiana successiva. Ed il film, precisa l’autore, non è sul Risorgimento ma sui repubblicani e sulle loro diverse anime.

Il dato autobiografico è un altro degli elementi determinanti nella genesi del film. Martone spiega che in tutti i suoi film ha sempre avuto bisogno “di un baricentro autobiografico che si facesse luogo dell’azione”. In questo caso hanno un loro ruolo non solo le estati dell’infanzia trascorse in Cilento ma anche la sua storia familiare: di due suoi antenati, cospiratori del primo Ottocento, uno aveva fatto parte della banda dei Capozzoli e li aveva poi traditi. Dunque ora era suo compito, come egli si esprime, “mondare” questa infamia!

Dopo alcune informazioni sulle vicende produttive (da cui apprendiamo che la prima idea del film risale addirittura al 2003 e che dunque esso non ha nulla a che fare con le celebrazioni dei 150 anni), Martone esplicita il suo punto di riferimento cinematografico:
Ho sempre pensato di voler fare un film con un impianto rosselliniano. Nel senso che volevo utilizzare, seconda la lezione di Rossellini, gli elementi della Storia in quanto tali, evitando rielaborazioni artificiali. Ad esempio, i dialoghi di Mazzini nel film, per gran parte, derivano fedelmente dai suoi scritti. Parlano con un’evidenza molto superiore a qualunque tentativo di sceneggiare che noi possiamo immaginare. […] Questi materiali portavano dentro una loro lingua obsoleta ma magnifica che ha cominciato a costituire per me una sfida appassionante: poter far recitare in maniera viva dei personaggi in una lingua che non era la nostra ma la loro.

Le riflessioni sulla lingua ritornano anche in seguito quando egli ricorda che nel film vi sono numerosi dialetti e diverse lingue; soprattutto i dialetti evocano il contrasto geografico. Ma questo contrasto si manifesta talora come conflitto (dialogo tra il vetturino e i bersaglieri al posto di blocco) e talaltra come ricchezza (l’incrocio delle voci meridionali e settentrionali tra i garibaldini).

Parlando della individuazione dei castelli di Bovino e Deliceto come location per girare le scene ambientate nel carcere di Montefusco, abbiamo un’altra indicazione circa le scelte stilistiche di Martone:
E’ vero che avrei potuto girare il carcere in un teatro di posa, data la sua concentrazione drammaturgica, ma non sarebbe stato lo stesso. Come dicevo prima, per me è sempre molto importante, dal punto di vista narrativo, l’aspetto concreto del paesaggio e dei luoghi. Nessuna ricostruzione può darti la spietatezza di un muro a cui sono state veramente incatenate delle persone, o di un luogo realmente umido. E’ stato faticoso lavorare nei castelli pugliesi, per gli attori e per noi tutti, in condizioni dure, ma credo che tutto ciò passi sullo schermo.
Là dove Martone parla della collaborazione con il direttore della fotografia Renato Berta, ci illustra anche il suo rapporto con i precedenti film risorgimentali:
Dato che si tentava un'impostazione storiografica nuova, alle origini del film c'era anche il tentativo di creare un'impostazione iconografica diversa rispetto a quella degli altri film risorgimentali, assimilabile sostan­zialmente ai film di Luchino Visconti, Senso e II Gattopardo. Anche il Rossellini di Viva l'Italia, infatti, è immerso in quel tipo di grandiosità pittorica, affreschi, battaglie. Una concezione chiara, molto bella e ovvia­mente molto sorretta finanziariamente e produttivamen­te. Ho rivisto con grande interesse tutti i film sul Risorgimento italiano. Mi ha colpito Vanina Vanini che, tra i film di Rossellini, è considerato "minore", ma che rac­conta in modo particolare la cospirazione come pochi altri film hanno fatto. 1860 mi sono reso conto di averlo inconsapevolmente citato; il film di Blasetti si apre infat­ti con l'incendio di un villaggio da parte dell'esercito borbonico, e io l'ho visto dopo che con De Cataldo ave­vamo già scritto una stesura con un inizio identico, Inu­tile dire che ho lasciato con entusiasmo la citazione. E poi Bronte, che ho visto in una proiezione in cui Florestano Vancini ne raccontava la realizzazione, un film storiograficamente molto interessante su un episodio atroce che dimostra come l'esercito dei liberatori garibal­dini potesse all'improvviso rivelarsi ferocemente repres­sivo nei confronti dei contadini in rivolta. Un tratto di ambiguità di cui si trova traccia in Noi credevamo nel contrasto tra i volontari garibaldini che mettono in scena I mafiusi de la Vicaria e gli ufficiali garibaldini che li vogliono zittire. Un film ambientato nell'Ottocento che ho amato è Piccolo mondo antico di Mario Soldati. Sono andato a vederlo alla sala Trevi a Roma, ho cercato infat­ti di vedere tutti questi film in pellicola, su grande scher­mo. Il film di Soldati ha una magnifica forza di realtà, realtà dei luoghi, dei rapporti tra i personaggi. Respiri il secolo proprio nella sua quotidianità, un vero scavo inte­riore. Pur non essendo direttamente politico, è stato uno dei film più preziosi ambientati nell'Ottocento che ho visto nei lunghi anni di preparazione di Noi credevamo.

Nella sezione in cui si parla delle quattro parti in cui si articola il film apprendiamo quali sono stati i materiali letterari e storici che hanno influenzato la stesura della sceneggiatura (oltre naturalmente al romanzo della Banti): I demoni di Dostoevskij e Il passato e i pensieri di Herzen per l’episodio di Angelo, Carceri e galere politiche. Memorie del duca Sigismondo Castromediano per le vicende interne al carcere di Montefusco, I mafiosi della Vicaria di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca per l’ultimo episodio.

Infine, le considerazioni conclusive di Martone:
Il titolo ci dice che il film è il racconto di una sconfitta, e non c’è dubbio che Noi credevamo sia un film tragico. Ma quando dico tragico, intendo anche catartico, vorrei cioè che desse una spinta all’azione. Il punto non è che tutto è finito, il problema è che tutto è da cominciare.
[Selezione e redazione di PG]

Nessun commento:

Posta un commento