Michelangelo Frammartino, autore di Il dono e Le quattro volte, due film documentari molto particolari il cui taglio filosofico ha fatto evocare la poetica virgiliana, è molto apprezzato in Francia, forse più che da noi. Pluripremiato a Cannes e vincitore del Gran Premio del Festival del cinema italiano di Annecy, ha ricevuto nei giorni scorsi una ulteriore consacrazione pubblica da parte del quotidiano Le Monde, che gli dedica un lungo articolo di Jean-Luc Douin e una intervista. Ecco la traduzione integrale inedita di entrambi.
Dall’umano al minerale, l’incanto del mondo.
Di rivelazioni così, se ne manifestano raramente. Cineasti come questo, bisogna onorarli. Questo film, d’una semplicità maliziosa, è stupefacente per bellezza e gravità. Ci si ritrova all’estremità del mondo, in un luogo arcaico dove perdurano tradizioni ancestrali. E’ tuttavia proprio oggi che il film è stato girato, in un pacifico paese medievale appollaiato sulle montagne della Calabria.
Quattro storie vi si concatenano, come si succedono le stagioni, esse stesse scandite da piccoli episodi falsamente anodini di cui l’autore scruta gli effetti a catena. La prima riguarda un vecchio pastore mal rasato, camicia a quadri e pantaloni di velluto scuro, che conduce quotidianamente il suo gregge di capre sotto cieli poco frequentati. Maestà del silenzio, musica dei sonagli. Belati, rumore di zoccoli. Il pastore curvo sul suo bastone si reca regolarmente in sacrestia dove la perpetua gli rifila della polvere della chiesa in cambio di una bottiglia di latte.Diluita nell’acqua, questa polvere magica ha delle virtù terapeutiche. Egli ne beve un bicchiere colmo ogni sera prima di mettersi a letto, come se fosse un medicamento. Un giorno, la bustina sacra cade nell’erba mentre il vecchio alleggerisce i suoi intestini. Quella sera, in cui tenta, disperato, di procurarsi una nuova dose di quelle particelle miracolose, trova la porta chiusa. Il vegliardo muore durante la notte, rantolando sotto lo sguardo delle sue capre che hanno invaso la catapecchia. Così filma Michelangelo Frammartino, privilegiando un sonoro in presa diretta senza dialoghi e le inquadrature, passando dal giorno alla notte e viceversa. Lo schermo diventa nero quando si chiude la porta della piccola stalla. E la luce acceca un capretto estratto dall’utero di sua madre. Noi ora seguiamo la crescita di questo fragile capretto, il suo svezzamento, finchè si allontana dal gregge smarrendosi in una boscaglia, si ritrova solo, sperduto, trepidante di freddo ai piedi di un albero maestoso. L’albero è un grande abete, che i paesani scelgono per la festa della “Pita”: viene segato alla base, trasportato per essere innalzato sulla piazza del paese, albero della cuccagna prima di finire, fatto a pezzi, dal carbonaio.La quarta storia è quella della costruzione di una carbonaia: ceppi disposti in cerchio secondo un rituale, ricoperti da un letto di fieno, poi di terra. E combustione, cottura che dura un giorno e mezzo, per ottenere del carbone di legna.Queste affascinanti strofe dei cicli naturali declinano quattro regni: quelli dell’umano, dell’animale, del vegetale e del minerale. Michelangelo Frammartino cita Pitagora: “Noi abbiamo in noi quattro vite che si incastrano le une nelle altre. L’uomo è un minerale, perché il suo scheletro è costituito da sali, un vegetale, perché il suo sangue è come la linfa delle piante, un animale perché egli è mobile e possiede una conoscenza del mondo esteriore. E’ umano, perché ha volontà e ragione.” Il filosofo greco del VI secolo a.C. non deve inquietarvi. Nessuna complicazione in Le quattro volte, null’altro che poesia segreta, una avvincente esplorazione di costumi e tempi che scandiscono vita, morte e rinascita. Una smagliante limpidezza narrativa. Pitagora abitò in Calabria, vi insegnò il senso nascosto delle cose e la presenza di un’anima in ciascuna cosa. Raffigurandosi come “un medium tra la materia e la forma”, filmando la sua cosmogonia, Frammartino ama ricordare che Pitagora discorreva dietro una tenda, una tela che prefigurava lo schermo del cinema. Questo omaggio relativizza l’impronta dell’uomo che è al centro dell’immagine solo il tempo necessario a passare il testimone al capretto, poi al legno e al carbone, lungo il filo di una trasmigrazione. Nulla muore, tutto si trasforma. Lo scenario resta immutato, le pulsazioni della materia variano.
Da dove viene questo Frammartino che ha una formazione da architetto, che sembra aver appreso la dignità esistenziale presso la povera gente, a contatto con i rituali paesani, e la cui arte di orchestrare il suo cantico della terra evoca quello del grande Ermanno Olmi, l’autore di L’albero degli zoccoli (1978)? Ambientato nella stessa regione, narrando il naufragio di un paese spopolato dove una giovane ragazza muta e ritardata offriva il suo corpo a degli automobilisti di passaggio, il suo primo film, Il dono (2003), era già interpretato da questo attraente vegliardo che altri non è che suo nonno. Egli vi esaltava il dono in opposizione allo scambio.Gran Premio indiscutibile dell’ultimo festival del cinema italiano di Annecy, Le quattro volte testimonia di una curiosità contemplativa per i misteri e di una riluttanza viscerale per gli artifici. Ma anche di un acuto senso dell’umorismo. Degno di Buster Keaton e di Jacques Tati, un lungo piano-sequenza il cui eroe è un cane, vale, da solo, di essere conservato nelle cinemateche. All’entrata del villaggio, all’incrocio di due strade, questo cane indiavolato disturba la processione religiosa degli abitanti vestiti da soldati romani, poi sposta un cuneo sotto la ruota di un camioncino, parcheggiato in equilibrio instabile, che scende lungo la strada in pendenza e sfonda in basso il recinto all’interno del quale il pastore ammassava le sue pecore. Qui, il realismo estremo di questa finzione dalle apparenze di un documentario reinventa la meccanica delle catastrofi a catena e l’arte dei cadaveri eccellenti.
Intervista raccolta da Isabelle Regnier
Dopo studi di architettura e una carriera cominciata nelle arti plastiche, Michelangelo Frammartino, 42 anni, è l’autore di due lungometraggi, Il dono (2003) e Le quattro volte, presentato quest’anno a Cannes, alla Quinzaine des réalisateurs.
Lei ha realizzato due lungometraggi, entrambi ambientati in Calabria. Perché questa regione?Il dono è stato girato in un antichissimo paese, situato sulla costa ionica, da cui proviene la mia famiglia. Le quattro volte in un paese situato a mezzora di là, ed in altri due, distanti parecchie centinaia di kilometri. Nel primo caso, la scelta della Calabria era una reazione contro la difficoltà che c’era nel girare a Milano: i vincoli burocratici … . Corrispondeva ad un bisogno di libertà. Per Le quattro volte, io me lo chiedo ancora. Avevo allora dei progetti piuttosto urbani, ma sono tornato al paese per mostrare Il dono e ho passato là una parte dell’inverno. La gente veniva a parlarmi, a presentarmi una fidanzata, una nonna. Un amico ci ha tenuto a mostrarmi la carbonaia che è poi nel mio film. Lì ho avuto una sorta di illuminazione.
Da dove le viene questa volontà di “decentrare” l’”umano”?Il cinema si inscrive nella tradizione pittorica che discende dalla prospettiva, e che ha messo l’uomo al centro di tutto. Egli ha la responsabilità di rimettere in causa questa centralità. Assumendosela, l’uomo può produrre un rimedio all’isolamento che ne deriva. Nel mio film, c’è questa idea dell’uomo che diventa minerale. Questo rimanda al mimetismo degli animali che si nascondono, diventando simili alle foglie o alle pietre. Gli scienziati vi vedono delle strategie di sopravvivenza, io penso che vi sia dell’altro. Gli esseri viventi sono mossi da forze contrarie: l’una li spinge ad imporsi, l’altra li conduce a fondersi in comunione con il tutto. E’ l’idea del viaggio dell’anima umana, del suo divenire minerale.
Le sue preoccupazioni sembrano ricollegarsi a quelle del thailandese Apichatpong Weerasethakul in Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, Palma d’oro 2010. Gli si sente vicino?Abbiamo fatto una tavola rotonda insieme, a Londra, ed è vero che si sono talvolta accostati i nostri film, il che mi onora molto. Ciò che ci distingue, mi sembra, è che lui, per come l’ho capito io, crede davvero nell’animismo. Per me è diverso: amo l’idea che vi sia gente che ci crede.
Si avverte un’affinità tra il suo modo di procedere e quello dell’Arte povera. Lo rivendica?Sono stato recentemente invitato alla radio con Giuseppe Penone. Il suo lavoro è davvero essenziale per me, la serie degli alberi in particolare. Penone è uno scultore, ma egli scava delle travi per ritrovare l’albero da cui provengono. E’ il contrario di uno scultore che si opporrebbe alla materia. Il suo lavoro, in qualche modo, risuscita la forma originale. E’ esattamente ciò che io cerco di fare, anche se sono consapevole che dire questo non è molto lusinghiero per Penone. Il mio lavoro procede da una volontà di trovare ciò che c’è dietro l’immagine.
Come si fabbrica un film come Le quattro volte? Che cosa è diretto e che cosa non lo è?Per fare un po’ l’erudito, cito la frase di Godard che diceva che, anche nella vita, c’è sempre qualcosa di preparato ed altro che non lo è. Questo vale per tutto. Quando si esce con una ragazza, ci si prepara, e poi accade quel che accade. C’è sempre una parte di improvvisazione. Io posso dirigere il vecchio, ma con una capra non posso. I piani sequenza del film sono stati messi in scena come delle coreografie. Ma invece di avere dei ballerini, io ho 200 capre. Utilizzo elementi incontrollabili che mettono in crisi la messa in scena.
Sono passati sette anni tra i suoi due film. Perché?Sono occorsi cinque anni per fare Le quattro volte. Due anni di osservazione e poi delle riprese che non sono state facili. Abbiamo dovuto fermarci parecchie volte. Quando ci si ferma, tutto ciò che si è stabilito in precedenza diventa più caro. Bisogna rinegoziare tutto. Inevitabilmente, il budget è divenuto troppo consistente per me. Si è fatto il film con un milione di euro, mentre io avrei preferito girare con meno. Per Il dono eravamo in quattro per le riprese. In questo caso eravamo in trenta.
[Traduzione dal francese di PG]
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